La ristorazione è la somma di tutto ciò che accade in due ambienti confinanti, sia per geografia che per filosofia: cucina e sala. Quello che viene prodotto nell’ “atelier” della cucina, viene poi esposto e valorizzato nella “galerie” della sala. Una dinamica di attesa, di desiderio e di soddisfazione. Anche in questo gli ingredienti vanno sempre saputi dosare senza trasformare la scena in una messa in scena.
Impastare, preparare, tagliare, pensare ad alta voce: è questo che ha spostato il baricentro, portando l’intimità, la componente “eremitica” della cucina, alla figura mediatica, “social” e “reality” di Chef stellati in tv. Questo – se da una parte aiuta la cucina ad avere un rilievo speciale nella società moderna – purtroppo porta spesso a confondere la sostanza con la forma e a cambiare le regole che hanno fondato grandi tradizioni con la ricerca di effetti e virtuosismi. Paolo Amadori, parte sempre dalla sostanza, anzi è profondamente legato ad essa, ma conosce l’importanza etica di spiegare un piatto, l’importanza di dare alle persone un valore aggiunto, un motivo per conoscere e per tornare e, soprattutto, l’importanza di chiamare le cose con il loro vero nome. Nome che ha resistito a un secolo di mode e maniere.